Riflessioni sull’immagine della Madonna, “Mater gratiae”.

Venerata nella cattedrale di Peru­gia

Dedicata agli sposi

II “dono del grembo”

 

“Madre della Grazia”, ossia del Verbo che si fa carne (“grazia”, in senso oggettivo), per la nostra santificazione (“grazia”, in senso soggettivo). La devozione popolare ha tradotto in italiano il fonema latino, piuttosto che il grafema, e così l’ha ribattezzata “Madre delle grazie”. Il titolo originario viene piegato a rappresentare tutti i nostri bisogni e desideri vitali, dietro i quali, tuttavia, si può leggere l’intuizione che nella grazia per eccellenza, l’amore di Dio, è da ravvisare la sorgente di ogni altra grazia: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta (Mt 6, 33). L’immagine è di scuola peruginesca. Qualcuno l’attribuisce allo stesso maestro, Pietro Vannucci, detto il “Perugino”, uno dei grandi del rinascimento italiano; altri, ad un suo discepolo, Giannicola di Paolo. Si tratta di immagine abbastanza inusuale, anche se non unica, per alcune particolarità. Innanzitutto la positura: in piedi, non in trono o comunque seduta, ma in movimento. Il piede, che esce dalla veste, proteso in avanti, suggerisce il dinamismo. Si offre in una densa e casta solitudine, condizione di ogni vera comunione, libera da qualsiasi volontà di possesso e dominio. Non ci sono angeli, non ci sono devoti, o committenti: è di tutti e di nessuno in particolare. È una donna incinta: il nastro che raccoglie la veste evidenzia l’accennata rotondità del grembo. Le mani, in un gesto non univocamente definibile, possono esprimere sorpresa di chi si schernisce, ma anche saluto, accoglienza e disponibilità. Il volto, un ovale un pò manieristico, di delicata e sublime bellezza, traspira dolcezza e serenità. Gli occhi, piccoli, pensosi e, al tempo stesso, penetranti, lasciano intuire la profondità del mistero che investe l’umile creatura (Lc 1, 48), come il desiderio di comunicarlo, desiderio accentuato dalle mani che sembrano suggerire il gesto sacerdotale con il quale si accompagna il saluto: “11 Signore sia con voi. Vengono in aiuto, per interpretare l’immagine, due metafore di filosofi contemporanei: il “dono del grembo” (Marion) e l’“epifania del volto” (Levinas). Ambedue suggeriscono un medesimo e duplice movimento, quello che porta a riconoscere ed accogliere il dono che è l’altro che viene a me (nel mio “grembo”), mi feconda, mi plasma (primo passo: accoglienza), e quello che assume la responsabilità dell’altro che ha bisogno del mio “grembo”, del mio “volto”, del mio dono (secondo passo: disponibilità). In una parola, il movimento che porta a scoprire che noi siamo intessuti di alterità: alterità accolta, alterità donata, e solo così la nostra vita diventa feconda. La “Mater Gratiae” della cattedrale di Perugia mostra una donna che, accolto nel grembo il dono dell’Alterità per eccellenza, si mette in moto verso l’altro: “in quei giorni Maria si mise in viaggio…” (Lc 1, 39). L’io di Maria è un “io rovesciato” – accogliente-disponibile – verso il tu, verso il bene, espresso con un duplice “eccomi”: Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto (Lc 1, 38), e, “a che debbo che la madre del mio Signore venga a me (Lc 1, 43). Il dono riconosciuto (“grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente, Lc 1, 49), con gratitudine, si trasforma in dono condiviso con generosità (“Nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta.. Il bambino le sussultò nel grembo, Lc 1, 40.41). Contemporaneamente, l’ammirazione di un dono inaspettato si trasforma in stupore per il mistero di una “donazione” che è da sempre (“di generazione in generazione la sua misericordia [si] stende.., Lc 1, 50). Il volto di Maria, nell’immagine peruginesca, volto fresco, quasi adolescenziale, apparentemente privo di emozioni, come assorbito nell’atempo-ralità di ciò che in lei si è compiuto, è cornice di uno sguardo anch’esso quasi assente, in realtà penetrante, un guardar diritto che comunica un’intensa volontà di condivisione.

 

Il volto intero, nella sua disarmante nudità, manifesta (epifania) quella misteriosa alterità, che vuol essere accolta e vuol accogliere, e ripropone, così, il duplice “eccomi”. La “nudità” del volto parla di umiltà, uscita dall’autosufficienza e dalla presunzione di essere solo “dono” e “non-donato”. Gli occhi, inoltre, sono latori di un muto interrogativo rivolto alla libertà di ognuno, chiedono se saremo capaci di acco-gliere, rispettare, custodire, amare quella misteriosa alterità. La consapevolezza che siamo intessuti di alterità condivisa, libera da ogni cattura e supremazia, come da ogni fuga e soggezione, è condizione imprescindibile per scorgere che si è sempre l’uno all’altro\a dono, ed, infine, ambedue dono dell’Altro, per eccellenza, l’amore di Dio Padre, che nel Figlio ha dato se stesso per noi, tramite lo Spirito, fondamento e modello di ogni vero dono. Cosa può dire l’immagine di Maria, “Mater Gratiae”, ad una coppia di sposi? Il dono del grembo” è metafora di un amore che genera innanzitutto la coppia – accoglienza in sé dell’altro\a; dono di sé all’altro\a – che, nel tempo, è capace di passare dall’ammirazione allo stupore, dalla gratitudine alla generosità-generatività. In tedesco, ammirazione (“bewunderung”) e stupore (“verwunderung”) hanno una co-mune radice (“wunder=miracolo, meraviglia), che suggerisce il “guardare verso”. Nel primo caso, verso l’essere-così (“so-sein”), nel secondo caso, verso l’essere in quanto tale (“sein”). L’ammirazione, propria dell’innamoramento, rivolto all’essere-così (bello, seducente, intelligente, forte, tenero…), diventa amore maturo quando si apre allo stupore del mistero-miracolo-meraviglia che è la persona in sé, nella sua interiorità e libertà, nella sua insostituibile identità . L’amore come “dono” nasce da questa insonda-bile, incatturabile e inesauribile interiorità. Ammetterlo significa accettare la “distanza” che resta tra sé e l’altro\a, distanza della libertà di ogni sé, distanza, che neanche Dio annulla, e che fa dell’in­contro di due alterità sempre e comunque (anche a novanta anni), un evento e un dono, qualcosa che di per sé non si può dare mai per scontato. Il “dono del grembo” ha inscritta nell’“epifania del volto” la muta domanda ad essere accolti e la delicata offerta ad accogliere, con attenzione discreta, non invadente, e tuttavia totalmente disponibile. La stessa libertà, condizione di ogni dono, è fragile dono che ha bisogno di delicatezza-tenerezza per non essere infranta. La “ri-conoscenza”-consape-volezza del dono, infine, si scioglie nel gioioso canto – “l’anima mia magnifica il Signore” (Lc 1, 46) – della ”riconoscenza”-grati­tudine. L’immagine mariana della cattedrale di Perugia, suggerisce una delicata presenza di Maria, e degli uni agli altri, umile preghiera ad accogliere e ad essere accolti, in costante rendimento di grazie, di “generazione in generazione” (Lc 1, 50).